Cartolina.

Infilami negli occhi un’immagine che contenga
un brivido il dettaglio della pelle d’oca
un orizzonte senza illusioni
e dimmi che ci sei stato,
raccontami la meraviglia
del ritorno,
di quel qualcuno che era qui ad attenderti
incurante del ritardo,
e dimmi che sono io
quella che ha tessuto tele
senza necessità di disfarle,
fammi sentire porto sicuro dove attraccare il presente
con le tue mani slega il nodo della paura
che mi chiude la gola
da un tempo infinito,
non darmi più minuti da contare
ad occhi chiusi, ticchettando le dita,
e dimmi amati come non posso fare io.
O come non voglio.

 

 

Civico n.8

La semplicità di avere le idee chiare.
Basta eliminare ciò che non ci piace.
Ripulire il campo dalle osservazioni altrui.
Cestinare tutti i consigli (soprattutto quelli gratuiti).
Fare orecchie da mercante dieci volte in più dell’abitudine.
Negarsi al telefono: Ora scusa non posso.
E poi sedersi sul margine di un tramonto,
chiedersi Chi vorrei accanto adesso?
e non aver paura di rispondersi.

Maybe tomorrow

Se ci vedessimo stasera, sarebbe bello, magari all’imbrunire che poi è il momento in cui la mia miopia si accentua quindi se ci dovessimo incontrare al solito bar farei fatica a individuarti, ma tu mi chiameresti e insomma stasera se ci vedessimo ne avrei da raccontarti. Ti racconterei del Figlio che cresce, hai sempre voluto sapere di lui, soprattutto hai sempre voluto ascoltare il come ne parlo, di lui, forse stasera avrei meno tenerezza, ti accorgeresti che ho un po’ paura della sua dichiarazione di indipendenza, delle sue idee contrarie alle mie persino nella punteggiatura, ti accorgeresti della fatica di 13 anni da sola, dei continui dovuti No, della voglia di dire – che mi sembra così liberatoria – Fai come cazzo ti pare! Ho caldo ho sonno sono stanca, ok questa casa è un albergo e ciao.
Intanto un primo bicchiere di vino bianco, fermo e fresco sarebbe già scivolato sui discorsi come i miei occhi sulle tue mani.
Non le ricordavo sai, ma ne ricordo le carezze, il calore sulla nuca, il tuo palmo sinistro pieno di vita, di fortuna, lavoro, 3 figli come predisse la zingara, eravamo piccoli e tu ridevi e io no, il futuro mi sembra impossibile poi ci arrivo e diventa passato e mi sembra che niente si avveri. Ma ti sei avverato tu.
Mi chiederesti di me, non ti basterebbe il mio “sto bene” e infatti non sto tanto bene: sai che sto per cambiare vita?
Si si seguo l’amore in un’altra città, avrò un altro lavoro, altri amici, altri angoli e scorci, nuove strade da memorizzare e in cui rassegnarmi a perdermi, ma io alla fine mi perdo apposta, così non torno mai a niente.
Una volta che mi ero persa ho conosciuto uno gentile. Mica sono frequenti quelli gentili, mi ha detto mi segua la porto io e pioveva e ha pure condiviso il suo ombrello solo che era alto, lui non l’ombrello, e alla fine mi sono bagnata tutta lo stesso, ma intanto ero arrivata anche se non volevo tornarci: là.
Si davvero – diremmo – fa molto caldo, è un’estate torrida ma la preferisco, la preferisce la mia pelle che torna bambina, ricorda quelle estati al mare sempre scalza e il calore della terra sotto i piedi, per questo lo sopporto questo caldo, perché è denso di immagini lontane che riesco a rimettere a fuoco e a scaldarmi – fin dentro – un po’.
Certo che domanderei di te, ma sai che non amo far domande, preferisco l’altro dica, che peschi a caso, che inventi addirittura, non riesco mai a costruire binari su cui prendere una direzione, non ho mai avuto una direzione, sono sempre andata (perdendomi) non dove diceva il cuore, al cuore non credo, ma la testa. La testa è sempre stata un problema, come si dice? Spegnerla. Spegnere i pensieri e invece io li tengo vivi e li seguo e mi ritrovo dentro entusiasmi assurdi e malinconie assurde. Come assurdo sarebbe ritrovarsi, tu e io, al solito bar.
Dai raccontami, ho proprio voglia di ascoltare.
Dicono sia raro trovare qualcuno che ascolti. Io trovo raro anche imbattermi in chi parli davvero. Non di luoghi comuni, di cronaca, copia e incolla di discorsi sempre uguali. No, parla, parlami sul serio. Fammi male di parole, parole vere non link che rimandano ad altro, ad altri. Dove eri finito? Dimmi di dove sei stato, se vuoi tornarci, se ne sei scappato.
E dimmi sei stai capendo dove sono finita io, a me sembra un luogo senza parole, battuto solo da sensazioni, sensazioni così maledettamente forti che mi fanno male e bene, certo, anche bene. Sto bene, si.
Non pensavo fosse così difficile invecchiare, non ho mai avuto paura di nulla, a volte ora ho paura ci sono cose che finiscono e non ho il tempo di ricominciarle. Non faccio in tempo, ecco: ho un po’ paura.
No, non scrivo più, non arrabbiarti. Cosa vuoi che scriva? A chi vuoi interessi davvero? Chi vuoi abbia voglia e tempo, alla terza riga è già altrove. Anche tu sei andato altrove, l’altrove deve essere un luogo troppo interessante per poter pensare di competere, di vincere e di poter trattenere qualcuno qui.
Ho sempre avuto questo rispetto maniacale, esagerato, della libertà altrui forse perché non ho mai gradito essere a mia volta costretta in un luogo che non sento mio.
Cazzo quanto parlo, quanto ti racconterei, quanto tempo è passato, quanto tutto, quanto senza te.
Ho sempre pensato saresti tornato, la zingara non aveva previsto tutto, vedi che il futuro non esiste? Non ne abbiamo avuto. Ma io ora ho un sacco di passato che tu non hai vissuto, ecco perché ti racconterei così tanto:
per fare invecchiare anche te, che restare giovani è una cazzo di sfortuna, vuol dire non avere avuto tempo.
Non averne avuto più, come te.

[Per A.]

Cieli

Chissà perché dipendiamo dal cielo.

Da giorni si offre un cielo che rende tutto più facile:
alzarsi, uscire all’alba, sbrinare l’auto, andare al lavoro.
Guido verso est, verso quella striscia arancio e rosa che promette già primavera.
Il nero si solleva piano, un sipario che si porta via le ultime, testarde stelle.
Sotto questo cielo ho voglia di fare. Di andare. Di camminare. Di guardare.
Sarebbe uno spreco perderselo.

E mi viene voglia di sbagliare strada, di perdermi e di venirti a trovare.
Ma tu sotto questo cielo non ci sei più
e, d’improvviso, strano, mi sembra troppo grande.

C’è.

C’è uno che ha come suoneria messaggi la sirena di una nave.
Sembra di stare nel porto di Genova, c’è pure questo cielo grigio, c’è pure umido, c’è pure che io salperei se potessi.
I vestiti in una sacca leggera, anche l’abito comprato ieri che non metterò, un cappello che faccia ombra allo sguardo
per non mostrare che, nel salutare questo lembo di terra io, figurati, non piangerei.

C’è quest’aria di autunno, quest’aria immobile carica di aspettative, di odore di foglie, quest’aria che sembra qualcosa debba succedere ma poi non succede nulla davvero, mai.

C’è che devo fare un mare di cose, certificati medici, certificati sportivi, visite, carte, c’è che io non ce la faccio ad essere sempre pronta alla (sua) partenza, via!
Via andrei io. Brutto da dire, ma lo dico a te.

C’è che mi accenderei una sigaretta. Non fumo. Ho provato sai?
Avevo un amico, un amico che adoravo. Dicono che l’amicizia tra uomo e donna non sia possibile. Non sia mai vera. Sincera. C’è invece che per noi è stata possibile. Inevitabile. E comunque lui non fumava ma io ogni tanto al tempo si.
Mi ero comprata un pacchetto di sigarette. L’ho fumato lungo tutto un mese. Ero negata, lo diceva anche lui.
Poi sono rimasta incinta, non di lui ovvio. Di quello di cui ero innamorata. Si dice perduta? Io dico perduta. Non mi ritrovavo più. Mi ha trovata mio figlio.
E così ho smesso qualcosa che non avevo mai iniziato: fumare. E anche l’amore in realtà non era mai iniziato. Di sicuro è finito.
Invece quell’amicizia perfetta dura ancora oggi. Solo che lui non c’è più. Morto. Una serata tra amici e lui, lui se n’è andato.

Non la dimentico quella sera, io. Ma non te ne parlo. Non ne parlo.
E non fumo nemmeno. E’ uno dei miei mai più.

C’è il disonore della resa, l’imbarazzo della bandiera bianca, tutti esaltano la lotta, il combattere, il rialzarsi, io rimarrei volentieri stesa, ciao.
C’è questa maledetta indipendenza. Di testa. Non di cuore. Ma la testa è più forte. E mentre scivolo verso le emozioni, lei mi prende per i capelli.
Mi tira su. Mi tiene sospesa su quel liquido caldo, nero. Io le emozioni me le immagino così. Come un mare di notte.
C’è che non voglio caderci in quel mare.

C’è che.
C’è troppa roba da raccontarti. E io non conosco che poche parole. E in queste poche parole non puoi sistemarci tutto.
Ci sta il necessario. Quel che vedo. Quel che tocco.
Ma quel che sento, quel che sento no.
Ad esempio un vento leggerissimo mi ha appena mosso i capelli. Ho avvertito un’emozione fortissima. Ho chiuso gli occhi per inseguirla. Raggiungerla. Capirla. E poi raccontartela.
Ma nelle parole non riesco a farcela stare, quell’emozione fortissima.
E’ il mio limite. Uno dei tanti. Li conosci tutti. Te ne manca uno.
Ma lo scoprirai quando non sarò tornata. E l’eroe, l’unico eroe resterai tu.

Pensavo

Sono sempre stata quella che non c’entrava niente.
Prendi un contesto, un contesto qualsiasi e io sono, precisamente, quella che non c’entra niente, proprio niente.
A volte le persone che non c’entrano niente l’una con l’altra si incontrano.
A me è successo con Lui, quattro anni fa.
A quel primo appuntamento ce lo siamo persino detti: Certo che tu non c’entri niente con me e ci siamo messi a ridere come pensando: Che ci facciamo qui, seduti in bilico su questa convinzione un po’ malinconica?
Poi ci siamo rivisti, per dircelo ancora che siamo distanti che siamo diversi che non esistono mondi differenti però in realtà si che ci sono perché proveniamo da esperienze senza affinità alcuna ed è bello parlarne e raccontarci per esempio che Lui ha girato il mondo io meno, io ho girato su me stessa mille e mille volte e sarà per questo che non c’entro niente, mai niente dovunque io vada.
Lui ha gli occhi grandi pieni di immagini. Nel suo sguardo lo vedi ciò che vede.
Io ho gli occhi piccoli e stretti, scuri di pensieri. Vorrei fossero belli e invece no.
Una sera mi ha portato ad una festa e lì il non c’entrarci niente l’ho ascoltato. Nel senso che ho ascoltato tutti i discorsi, i commenti, le opinioni, i contenuti e proprio mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Ho preso ad annaspare, cercavo aria volevo aria e così me ne sono andata in fretta, ho preso le scale, ho accelerato, sono uscita quasi correndo da quel palazzo antico coi corrimano in pietra, con i gradini di marmo consumato, sembrava m’avesse sputata fuori, per strada.
Solo che Lui mi ha seguita, era dietro di me e non era contento della mia fuga e a dire il vero io nemmeno: mi sentivo sciocca, cretina e però anche libera, c’era ossigeno e ci siamo messi a camminare Non era granché come festa, mi ha preso la mano, Forse invece si, gliel’ho stretta.
Abbiamo attraversato strade, passeggiato sotto quei portici che trattengono voci e risuonano di passi.
Potremmo essere quelli giusti. Quelli i cui sguardi si incontrano, oltre le teste di molti e si sorridono. Ho pensato.
Lui invece lo ha detto: ha sempre più coraggio di me. Sarà il naso. Ha un naso dritto e fiero e mani sottili, creative.
Però magari domani glielo dico che mi sono innamorata sul serio, che cazzata come se uno potesse innamorarsi su altro.
Il domani è venuto e gliene ho accennato, Forse ti amo. Ho messo il forse che se me lo avesse detto lui “forse”…no, niente, non avrei obiettato nulla perché io non credo alle cose certe credo che tutto nella vita sia un incredibile equilibrismo.
E anche lui ha evitato commenti si è preso il ti amo avvolto nel forse e lo ha trattato come fosse prezioso, come fosse fragile e invece è lì da un po’ e resiste e mi fa sentire forte, assurdo come una cosa precaria possa farti sentire forte.
E viva.
E felice.
Pensavo di non c’entrarci niente con la felicità.

Già.

Oggi sono irrequieta. Tanto irrequieta che non so più bene nemmeno cosa significhi irrequietudine.
Magari sbaglio a parlare di irrequietudine. Forse sono vittima di una malattia della mente che non mi fa concentrare
nemmeno sulla mia stessa irrequietezza. Ecco ho cercato sul dizionario (on line) i due termini: Irrequietezza e Irrequietudine,
primo, per non sbagliare che se poi quel che sto scrivendo lo pubblico non voglio mica fare la figura di quella che non sa, secondo, per controllare se quel che significa è esattamente quel che sento e fugare quindi il dubbio della malattia mentale.
Non vorrei tornare in analisi. Io in analisi ci sono stata per anni.
La prima volta che ho visto uno psichiatra è stato quando avevo 13 anni.
I miei erano preoccupati perché mi “isolavo”. A me sembrava assolutamente naturale isolarmi visto che in casa eravamo in sette. Avevo quattro fratelli, studiavo in un angolo del tavolo della cucina in posizione precaria, mentre nel soggiorno due tentavano di mettere insieme una rock band e le camere da letto erano occupate appunto da letti e armadi e librerie e libri e sorelle e fidanzati e insomma a me la solitudine sembrava un tesoro da conquistare e tenere stretto.
Così quando mi invitavano delle amichette (al tempo fino ai tuoi 15 anni i genitori le definivano amichette) a casa loro io rifiutavo sempre: figurarsi se mi fossi andata a mettere di mia volontà nella condizione di dover condividere spazi, pensieri e parole con altre persone.
Il mio desiderio a fine giornata, dopo compiti, aiuto in casa, sopportazione fratellanza, era trovare un angolo solitario e leggere. O scrivere. O pensare.
Forse, se non avessi pensato, sarebbe stato meglio. Cioè, dico, i miei genitori hanno cominciato a preoccuparsi sul serio quando mi hanno vista pensare. Pensare è un’attività che, valutata dall’esterno, può oggettivamente far preoccupare.
Io ero capace di restare immobile per ore a pensare. Sguardo perso nel vuoto. 
Solo che il pensare altrui da da pensare. Io so bene che poi si chiedevano l’un l’altra: Ma secondo te a che pensa?
Un’azione è giudicabile. Il pensiero invece lascia il mondo esterno, almeno apparentemente, fuori.
E i genitori non vogliono restare fuori. Altrimenti vorrebbe dire che non ti conoscono. (Ma chi lo ha detto che dobbiamo conoscerci tutti? Capirci? In famiglia assomigliarci? “E’ tutto suo padre” “Cammina come la nonna” No! Perché vuoi ridurmi ai minimi termini di quel che conosci? Che ti è familiare?) 
Vogliono entrarti dentro e capirti. Così poi possono andare a letto tranquilli.
Credo avrebbero preferito che io facessi qualche cazzata. Nel caso avrebbero avuto già tutti i discorsi pronti (sperimentati sugli altri figli).

Ok, niente malattia mentale e niente analisi.
Eppure giorni fa, guardando mio figlio che è un anticipatario dell’adolescenza, quella brutta, steso sul letto immobile, a me è venuto da chiedergli: Cos’hai? E lui mi ha risposto: Niente. Sto pensando.
E ho sentito lo stomaco stringersi, come prima degli esami all’università, quando andavo al bar ordinavo un caffè e poi mi veniva la nausea solo a vederlo.
E sono stata posseduta da mia madre: improvvisamente ho parlato e ho detto le parole di mia madre, precise. 
Ma perché non esci? Gli amici? Cosa fanno loro oggi?
Gli amici (quelli che ti fanno frequentare, ovviamente) per certi genitori come mia madre sono sempre un passo avanti. Cioè se l’amico è uscito tu figlio dovresti fare lo stesso altrimenti mi costringi a pormi delle domande e a porle anche a te.
Ed eccomi quindi ad essere una madre come mia madre.
Cazzo. Le stesse parole. 
E prima che potessi aggiungerne altre, ero già di nuovo io, chiusa nel bagno a guardarmi nello specchio per controllare se fossero rimasti residui di mia madre anche nello sguardo. 
E pensare che io nemmeno volevo diventare madre. Tanto meno diventare mia madre.

Oggi lei ha 84 anni e ci confonde tutti. Qualcosa le sta cancellando i ricordi. I nomi. La sua vita.
Ha dimenticato che vivo a 800 km di distanza e che ho un figlio.
Ogni tanto mi cerca, in casa, e finisce col borbottare: Ma dov’è? Sarà sulla sua isola, a pensare
Chissà quando sbiadirà nella sua testa anche questa immagine di me, con tutte le altre di noi.
Ma a questo, io ora, non voglio pensare. 

Io adesso la chiamo e le ricordo che le voglio bene.

La storia (triste) della Signora del primo piano.

La Signora viveva al primo piano.
A Natale l’avevano scoperta trascinare l’albero condominiale all’interno del suo piccolo appartamento.
L’appartamento era arredato con mobili facili. Era completamente privo di piante.
C’era un bagno piccolo, con una doccia stretta.
Dentro la doccia uno sgabello d’alluminio, dove lei sedeva, sotto il getto dell’acqua calda.
E certe sere piangeva. Silenziosamente.
Acqua nell’acqua.

La Signora abitava da sola.
Quando squillava il telefono non rispondeva mai.
E poichè l’assenza di risposta frantuma qualsiasi domanda, il telefono smise serenamente di squillare.

Passava interi pomeriggi a guardare fuori dalla finestra, chiusa.
In realtà non guardava fuori. Guardava il suo riflesso opaco nel vetro.
In quel riflesso sbiadito vedeva se stessa. Ma non quella di ora. Quella di una volta.
Quella che non c’era più. Quella che era finita dietro il vetro,
portando con sè tutte le possibilità.

Quasi tutte le sere si sdraiava sul divano pensando che sarebbe stata l’ultima sera.
L’ultima sera della sua vita.
Poi le venivano in soccorso i sogni, come regolamenti di conti che, in realtà, restavano sempre in sospeso.

Alle 5 del mattino era ancora lì. Viva. I capelli premuti da un lato.

Andava in bagno ma no, non si guardava allo specchio.
Aspettava la luce giusta per tornare a riflettersi nel vetro della finestra.

A metà mattina si spingeva fino al bar. 
Lì teneva gli occhi bassi sulla tazza del caffè.

Pagava. Un buongiorno silenzioso. 
Poi un giro a piedi. Le caviglie sembravano annodate.
Talvolta vagava a lungo, tra la gente.
La Signora aveva un’unica paura: morire di notte, nel suo letto.
E essere ritrovata solo dopo mesi.
Infatti non ci dormiva mai. Mai.

L’ultima volta che vi si era stesa aveva fatto l’amore con un uomo.
Che poi era sparito, dietro il vetro anche lui.

A volte le sembrava di vederlo riflesso, appena dietro le sue spalle.

Ma non aveva il coraggio di voltarsi.
Restava lì, ore. Aspettando lui sparisse da solo.
Come era successo nella vita, quando le aveva detto che no,
non poteva amarla più, che ci sono persone che – per amarle – bisogna spingersi oltre,
oltre i propri limiti, oltre il proprio orizzonte ma lui no, non poteva.
Lui voleva amare qualcuno che rientrasse nei suoi spazi e nelle sue capacità.

E così se ne era andato, senza alcuna fatica.
Mentre lei gli voltava le spalle le aveva ficcato nelle scapole quell’addio, netto.

Così anche ora, quando le sembrava di intravederlo in quel vetro,
attendeva il riflesso sbiadisse da solo.

E lui, come da copione infatti spariva.

 

7.

Sono stata qualche giorno via. Quel via ha compreso
una città in cui ho saltellato su impreviste note musicali
e un fiume, nel quale ho visto volare mio figlio in impeccabili e coraggiose capriole.
Ma, dicevo, sono stata altrove e poi, riaperto twitter, ho trovato questa specie di nomination che preferisco intendere come una dedica da parte di una persona (@SparkyLizzie) a cui mi sono affezionata nel giro di qualche giorno, anzi di qualche parola, che mi si è avvolta intorno al cuore e ha stretto.
Così ringrazio l’autrice del blog http:/lizzieblaspheme.wordpress.com/
per questa incredibile citazione della sottoscritta nel  “The very inspiring blogger award”.

Allora, le regole sono le seguenti:

1. Ringraziare il/la blogger che vi ha nominato. 
2. Elencare le regole e visualizzare il logo del premio. 
3. Condividere 7 fatti su di voi. 
4. Nominare 15 blogger e notificargli la nomination. 

(Io il logo del premio non lo visualizzo affatto o forse lo visualizzo ma non lo capisco, insomma tra tutti temo di essere la più vecchia o la più rincoglionita, per cui, chiedo perdono se delle 4 regole ne ho afferrate solo 3 e mezza)

Dei 7 fatti su di me credo che di interessante non ce ne sia nemmeno uno.
Pertanto non tedierò l’unico lettore del mio blog (la cara @SparkyLizzie per me sempre Poppy) con l’elencare 7 fatti che sottolineerebbero ancora una volta la mia palese mediocrità e evidenzierebbero una personalità banale e una vita in equilibrio tra successi e insuccessi.

Vorrei raccontare solo un mio forse assurdo eppure pressante desiderio, quasi una volontà testamentaria e visto che posso vantarmi di un’età in cui la bizzarria è assolutamente lecita, procedo:

Vivo in una piccola casa immersa nella pianura padana, in quel lato “basso”, che in autunno affonda nella nebbia e ci resta per giorni interi lasciandoti alle prese con luci sfuocate e cigolio di biciclette. Null’altro.
Questa casa non ha alcun pregio se non, in giardino, due alberi: uno offre amarene succose e l’altro piccole pere verdi di cui nessuno si nutre a parte passeri e gazze in primavera. 
Ci sono pochi mobili di mediocre fattura. Ma su di essi io ho preso da anni e anni ad appoggiare libri. E quaderni. E disegni. E fogli con piccoli messaggi di vita quotidiana e forse poesie. O magari emozioni, non so.
I libri sono lungo la scala, sui gradini. Nelle librerie. In bagno. Sui comodini. Sulla cassettiera. Sul pavimento. In un recipiente africano che non ho mai saputo a cosa servisse. In un angolo del divano, così che mio figlio e io lo occupiamo per metà. Nella mia camera. In quella di mio figlio.

Temo di essere stata e di essere tuttora un’accumulatrice di parole. Altrui. Ma anche mie.
Da piccola avevo una parete nella mia camera (c’è ancora) dove i miei genitori mi consentirono di scrivere. Ma questo riguarda un’altra vita, quella che – grazie alla scrittura e alla lettura – non ho poi scelto di interrompere al termine di un qualsiasi capitolo. 

Insomma, tornando al desiderio, vorrei dire alla giovane @SparkyLizzie che mi piacerebbe davvero se un giorno, quando mi sarà impossibile leggere causa vecchiaia o per sopraggiunta morte, lei venisse a passare le dita sui miei libri e ne prendesse alcuni o anche tanti e li portasse con sé, nella sua vita che immagino piena di parole, come la mia, ma più coraggiose ed emozionanti.

Si.

Forse questo desiderio contiene 7 cose su di me.
E io mi figuro che almeno una possa essere compresa dagli occhi di Lizzie.
Ecco perché.

 

 

 

Una paginetta semplice di righe semplici.

Ma se ti scrivessi? Che dici? Una paginetta semplice con righe semplici.

Giusto per dirti quanto ti voglio bene, quanto mi piace bere il vino appena sotto il tuo sguardo e commentare, con allegria, sa di tappo, sa di polvere, sa di fragola.
Giusto per non finire sommersa sotto la frana di supposizioni che riguardano te e i tuoi silenzi.
O per curare la mia insicurezza dalla sua mania di protagonismo. E dire a qualcuno, e perché non a te?, che ho sempre paura di non essere abbastanza, di essere poco, di peccare di superfluo.
E dunque, se ti scrivessi, sapresti. E potresti farne buon uso. Che le parole si usano per questo. Per dirsi quei vuoti altrimenti non visibili. Come lunghe dita ad indicare quel che l’altro non nota, dalla sua visuale.
Oh se ti scrivessi, che è una delle poche cose, forse l’unica che un po’ so fare, metterei da parte quell’ironia che mi contesti ma che è sacrosanta quando hai un’anima debole, come quando ti cammino al fianco, sui tacchi, e incespico e rido per testimoniarti è solo un inciampo, sono una donna sono una donna! E mettere a tacere quella voce che mi ricorda: non abbastanza.
N
on abbastanza.